1. Il problema della qualificazione giuridica dei semi
Tra le materie prime di antica ascendenza agroalimentare – che tuttora ci appartengono e delle quali occorre conservare la memoria consegnandola intatta alle future generazioni – ci sono le sementi di antiche varietà vegetali originarie del nostro Paese, come il grano, gli ortaggi, la frutta, i vitigni, le erbe officinali, che vengono ancora coltivate in quanto sono state conservate da contadini e agricoltori cd. custodi, che le hanno tramandate di generazione in generazione, mantenendole nella loro purezza originaria.

Questi antichi semi dovrebbero rilevare, da un lato, come segmento di un patrimonio vegetale, anche di valore culturale e, dall’altro lato, come una potenzialità economica per il segmento della trasformazione agroalimentare vestito Made in Italy.
Duole fin qui constatare, però che la biodiversità agricola è stata lasciata fino a tempi recenti alla cura esclusiva di volenterosi agricoltori custodi, all’iniziativa di imprese visionarie, di centri di ricerca, di associazioni private, il cui generoso impegno risulta però del tutto insufficiente per la scarsa consapevolezza collettiva dell’importanza di quel patrimonio. Ed anche per l’assenza di una qualificazione giuridica, che di quel patrimonio consenta un’adeguata tutela.
Il nostro intervento, quest’oggi, vorrebbe essere un prima (senz’altro approssimativa) bozza di ragionamento per dare qualificazione giuridica a queste antiche varietà di sementi.
Al riguardo, si possono considerare due direttrici distinte per arrivare ad una possibile qualificazione giuridica: direttrici tra loro non alternative, ma che hanno moltissimi punti di sovrapposizione ed intersecano anzi molti degli obiettivi oggetto di finanziamento del PNRR.
a) Il primo segmento ricostruttivo si giova dei principi giuridici fondamentali contenuti nella formulazione degli articoli 9 e 41 della Costituzione (dopo la modifica del 2022).
b) Il secondo segmento per qualificare giuridicamente gli antichi semi utilizza il contenuto delle Convenzioni UNESCO e la disciplina del vigente Codice dei beni culturali.

2. Prima ipotesi di lavoro: la tutela delle antiche sementi attraverso i principi contenuti negli artt. 9 e 41 della Costituzione (nella nuova formulazione del 2022).
Al comma 3 dell’art. 9 della Costituzione è stabilito che la Repubblica “tutela l’ambiente e la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni”. Ci soffermiamo brevemente su biodiversità e su ecosistemi.
La biodiversità (altrimenti detta diversità biologica) indica la coesistenza di varietà vegetali e animali che sono parti di un ecosistema. Gli ecosistemi sono definibili come aree autosufficienti, di estensione variabile, nelle quali gli organismi viventi interagiscono in equilibrio con la materia inorganica (un lago, un bosco, ecc.).

Con la recente riforma, la nostra Costituzione mostra finalmente piena consapevolezza che l’attuale crisi ambientale e climatica impone di ridefinire il rapporto tra le libertà individuali e dei diritti sociali da un lato e dall’altro, i diritti riconosciuti al pianeta di difendere il suo ambiente naturale, le forme di biodiversità e di mantenere in equilibrio gli ecosistemi più delicati.
La prima qualificazione giuridica delle antiche sementi appare direttamente desumibile dalla formulazione del nuovo articolo 9 Cost. E’ ragionevole ipotizzare che territori geograficamente delimitati (nei quali attraverso metodi agricoli tradizionali si coltivano storici segmenti del patrimonio nazionale colturale e culturale) possano rappresentare (i) ecosistemi caratterizzati da (ii) diversità biologica e che, di conseguenza, anche le antiche sementi siano assorbite dentro il nuovo perimento di tutela, in base al principio del più che contiene il meno.

Il nuovo art. 9 della Costituzione valorizza peraltro la protezione della biodiversità agricola, in combinazione con il nuovo art. 41 Cost., in base al quale si stabilisce che l’iniziativa economica privata non può recare danno all’ambiente. In tal modo, si esclude l’esistenza di una libertà economica assoluta ed incontrastabile all’utilizzo acritico ed indifferenziato, ad esempio, della monocultura, in molti casi autentico sterminatore di preziosi e antichi ecosistemi (in questo caso, si può pensare soprattutto a gruppi industriali di grande dimensione e “forza” persuasiva persino nei confronti degli Stati).
In tale prospettiva, le antiche sementi ricevono diretta rilevanza giuridica (e ai massimi livelli) come oggetti di immediata tutela attraverso politiche di valorizzazione e di protezione anche da eccessi del potere economico; si tratta di un caso evidente di come qualunque comunità politica, che legittimamente invoca la libertà del mercato, talora necessita di protezione dalla libertà del mercato.

3. Seconda ipotesi di lavoro: gli antichi semi come bene culturale immateriale
Insieme ai beni paesaggistici, i beni culturali compongono il patrimonio culturale.
La conservazione fisica e la valorizzazione del bene culturale si giustifica con l’essere tale bene un possibile fattore di sviluppo intellettuale della collettività e un elemento della sua complessiva identità.
Il Codice dei beni culturali del 2004 individua tra i beni culturali (ai quali si assicura tutela e valorizzazione) le cose materiali mobili ed immobili di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico (elencate all’art. 10).
Nell’ordinamento italiano ci sono anche categorie di beni culturali ulteriori a quelle previste dall’art. 10 del Codice.
Segnatamente, la categoria dei beni culturali immateriali che l’art. 7-bis del Codice qualifica come “espressioni di identità culturale collettiva”, vale a dire, le testimonianze aventi un accertato valore di civiltà, che non sono contenute e rappresentate fisicamente in una res. Il loro rilievo è legato in particolare alla ratifica da parte dell’Italia nel 2007 delle convenzioni UNESCO del 2003 e del 2005, per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e promozione delle diversità culturali.

In particolare, la Convenzione UNESCO del 2003 considera come patrimonio culturale immateriale “(…) le conoscenze, il know-how (…) che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”.
A titolo esemplificativo, nella lista rappresentativa del patrimonio culturale dell’umanità prevista dalla Convenzione del 2003, in una prospettiva antropologica di cultura, sono stati inseriti, tra gli altri, il “Teatro delle marionette siciliane Opera dei Pupi” e soprattutto, per quanto qui interessa e come certo saprete, la “Dieta mediterranea”.

Anche il Parlamento Europeo, in una Risoluzione sul Patrimonio gastronomico europeo del 2014, ricorda che l’UNESCO ha riconosciuto la dieta Mediterranea come patrimonio culturale immateriale, “in quanto costituita da un insieme di conoscenze, competenze, pratiche, rituali e simboli correlati alle colture agricole ( …) nonché alle modalità di conservazione, trasformazione, cottura, condivisione e consumo degli alimenti”.
Ebbene, per la qualificazione giuridica delle antiche sementi, queste affermazioni sono rilevanti anche per il nostro vigente diritto positivo, posto che l’art. 7-bis del Codice dei beni culturali assicura tutela e valorizzazione dei beni culturali immateriali contemplati dall’UNESCO, a condizione che le testimonianze di identità culturale collettiva siano evocabili a partire da beni materiali (ad esempio, i semi) di interesse artistico, storico, archeologico e (sottolineo) etnoantropologico.
La categoria del bene di interesse etnoantropologico interessa molto da vicino il nostro caso. La etnoantropologia indica lo studio delle culture umane, con particolare attenzione ai prodotti della vita sociale e culturale dei popoli. Questa ricchezza culturale include tutte le manifestazioni popolari e quei prodotti a partire dai quali un gruppo sociale riconosce una propria identità attraverso un senso di appartenenza collettiva.
Ai beni culturali di questo tipo sono ascrivibili alcuni particolari usi e costumi, musiche, danze, proverbi; non ultimi, gli strumenti e i prodotti di artigianato nonché – secondo una nostra personale valutazione personale –le materie prime e le metodologie agricole per la loro trasformazione in prodotti finali, di accertata e significativa rilevanza per la vita culturale e sociale di una comunità.

Ecco, l’aggancio che, a nostro avviso, potrebbe consentire di legare i semi antichi all’art. 7-bis del Codice dei beni culturali. Se, come “dieta mediterranea”, i tradizionali metodi di conservazione, trasformazione, cottura, condivisione e consumo degli alimenti finali possono considerarsi come espressioni di identità culturale collettiva direttamente ricavabili dalla coltivazione di alcune varietà di semi autoctoni, la previsione dell’art. 7-bis sembrerebbe essere rispettata, proprio perché quei semi sono qualificabili come cose materiali di interesse etnoantropologico. I semi cioè costituiscono la base materiale della “dieta mediterranea”, a sua volta testimonianza di identità culturale collettiva.
Di qui la possibilità di un riconoscimento giuridico per questo tradizionale patrimonio genetico autoctono di interesse agrario e forestale e del connesso know-how distillato da secoli di sapiente “saper fare”: un patrimonio genetico e una tradizionale sapienza nel maneggiarlo che occorre valorizzare come insieme di assets materiali e immateriali sui quali investire denaro e capitale umano.

Un patrimonio che occorre proteggere, non ultimo anche attraverso l’individuazione e la catalogazione delle rispettive caratteristiche attraverso “disciplinari” o con altri strumenti comunque idonei a conservare e tramandarne la memoria. Abbiamo il piacere a ricordare che, tra gli obiettivi di AVASIM, ci sono proprio alcune iniziative per il riconoscimento dei semi antichi della tradizione italiana all’interno del patrimonio culturale nazionale dell’umanità nell’accezione di beni culturali immateriali.
Sia consentita una riflessione in chiusura del nostro intervento.

Quando il Comitato intergovernativo UNESCO ha inserito la “dieta mediterranea” nella lista dei beni immateriali rappresentativi del patrimonio culturale dell’umanità a pensarci bene, sembra aver seguito percorso argomentativo simile a quello indicato. Solo che – sia detto con il massimo rispetto dovuto all’Agenzia ONU – è partito dalla fine, cioè dal fenomeno complessivo (la dieta), di cui adesso è necessario valorizzare i singoli elementi costitutivi: cioè, le materie prime che consentono di imbandire la tavola con la gastronomia mediterranea.
La dieta è “mediterranea”, il clima è “mediterraneo”, il paesaggio e l’ambiente sono “mediterranei”. Ma anche le materie prime sono “mediterranee”.
Vorrete perdonere la facile metafora, ma le antiche semenze italiane sono il seme dai quali germoglia, fiorisce e ogni volta rinasce il patrimonio materiale ed immateriale su cui poggia l’identità ambientale, geografica, sociale e culturale del nostro Paese.

E’ un equilibrio molto delicato. Basta alterare uno dei fattori e viene meno l’intero paradigma. Non c’è cultura mediterranea senza materie prime autoctone con il loro pregio varietale; non c’è dieta mediterranea senza rispetto delle tradizioni gastronomiche; non c’è qualità della vita mediterranea senza predefiniti standard ambientali di biodiversità e protezione degli ecosistemi. E si ripete: senza l’ecosistema e la cultura mediterranea si fa fatica a riconoscere una sicura identità nazionale.

Quella di oggi è la sede più idonea per sottolineare che la qualificazione giuridica delle antiche sementi come varietà biologica inserita in ecosistemi protetti e come bene culturale immateriale ha una funzione di presupposto abilitante per la predisposizione e l’attuazione dei progetti finanziati dal PNRR, che mi auspico vadano nella direzione finora indicata.
A quanto ci consta, nel suo piccolo, AVASIM questa strada ha iniziato a percorrerla.

 

 

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